Semplicemente da Francesco. Se vuoi arrotolare la forchetta nei più buoni spaghettoni cacio e pepe del mondo vai da Da Francesco, lì a Piazza del Fico, nel pieno del forsennato ritmo metropolitano. Nessun accampamento rurale, nessun campanile isolato che annuncia il sorpasso delle ore: sei nel centro di Roma con più americano, spagnolo e francese nelle orecchie dei biascichii del coattello di quartiere.
Nascosta dietro i rami del fico, proprio sulla piazza, si erge questa affascinante trattoria, un locale immutato negli anni, che ha scelto con fierezza di inseguire la tradizione senza compromessi. Tecniche primitive, autentiche, associate a una grande materia prima figlia del territorio circostante e non. Una ristorazione tanto primordiale, quanto attuale e inossidabile, che propone da sempre una delle offerte più rigorose nel parterre gastronomico capitolino.
Da Da Francesco – scusate la ripetizione ma così si chiama il ristorante – mangio da parecchi anni, con genitori, amici e sempre, SEMPRE, il mio stomaco ha fatto festa. Se volevo stare leggera ordinavo una semplice caprese con Mozzarella di Bufala DOP del Caseificio Barlotti e due scaglie di bottarga artigianale o gli avvolgenti e sapidi spaghetti Mancini con burro d’Isigny e alici del Mar Cantabrico di Codesa. Se volevo farmi del male andavo giù pesante di tortelli alla carbonara con tartufo nero di Norcia dopo una pizza con i funghi Porcini da condividere con tutto il tavolo.
Insomma da Da Francesco trovavo pane per TUTTI i miei denti (e i miei stomachi).

Poi quasi per caso è successo l’insospettabile: ho scoperto l’esistenza di un sopra, o meglio di un SU. Da due anni a questa parte, spiccioli per i quasi 63 anni di vita dello storico locale (aperto nel 1957), i due fratelli Mario e Francesca Boni, nipoti del famoso fondatore Francesco, assieme al marito di Francesca, Federico, hanno deciso di dare una svolta al corso del ristorante.
Hanno deciso di aprire un sopra, per pochi, intimi, clienti che volessero vivere la Roma coatta, verace, da un altro punto di vista, meno primitivo e più contemporaneo, insolito e affascinante. Così è nato Da Francesco Su.
Si parte dall’atmosfera, molto più soffice e calda rispetto a quella del piano sottostante a cui si accede tramite una porticina su Via del Corallo 3: mattoni e travi a vista, parquet in legno chiaro e tavoli scuri senza tovaglia. Qualche richiamo dorato e il gioco è fatto: sei nel più bel ristorante di Roma (e lo dico sul serio, almeno per mio gusto personale).
Una ventina i coperti. Il personale di sale ti assiste da vicino e ti segue nella scelta dei piatti da ordinare, pochi ma buoni (5 antipasti, 4 primi, 4 secondi e un dessert) che cambiano seguendo il ritmo delle stagioni.
Potente, a tratti impressionante, è la carta dei vini curata con passione da Federico che preleva da tutto il mondo, etichette di inestimabile valore.
Ma la protagonista indiscussa è la cucina, domata con esperienza impareggiabile e interpretata come strumento esaltatore di qualsiasi tipologia di elemento, dalla terra al mare senza distinzione.

I cucinieri sono 2, diversi e complementari come le due facce di una moneta: da una parte Mario, romano da sempre, dall’altra Gen Nishimura, giapponese di nascita e italiano da 14 anni. La sensibilità e la precisione allarmante del secondo, si scontrano con il fuoco e il vigore del primo dando vita a piatti unici, originati sempre dalla ricerca quotidiana di prodotti locali dal livello insuperabile, come le uova di Paolo Parisi, i funghi shiitake o il limone verdello della Basilicata.

Approccio materico e senza filtri, dove esperienza e gesto dominano la scena, dialogando con lo spirito dell’assaggiatore tramite sapori sì ancestrali ma anche contemporanei e internazionali, scaturiti dalla padronanza assoluta del “manico” (della padella), come direbbe Mario.
Una lettura artistica e didattica dal valore inestimabile della cottura diretta, senza intermediari, come mezzo di esaltazione di qualsiasi ingrediente, rispettato con grazia e eleganza.

Il prodotto e il cliente rimangono gli attori principali rispetto alla figura del cuoco, ma, d’altra parte è proprio il cuoco a fungere da veicolo indispensabile per il dialogo tra i fattori chiamati in gioco regalando armonia complessiva durante l’esperienza a tavola.
Conoscenza, ingegno ed evoluzione nel calibrare le preparazioni con abbinamenti già noti ma qui eseguiti alla perfezione.
Un polso da moderno Prometeo, per un’applicazione non replicabile. Tutto appare estremamente semplice e immediato, diretto alla gola, nascondendo in realtà un processo di trasformazione dalla complessità rara. Trionfo del gusto, traghettato su un’espressione concettuale lucida e mai invadente.

Esordio filologico, affidato a uovo, patate e una grattuggiata di tartufo bianco, fresco di stagione. L’uovo di Paolo Parisi, che già da solo basta e avanza, viene cotto a bassa temperatura “come fosse alle terme“, aggiunge Federico, e nascosto da una spuma di patate soffice e non collosa, insaporita da una lacrima di fondo bruno (in soldoni un sugo dell’arrosto all’ennesima potenza) e tartufo bianco. Un antipasto che grida casa ma al contempo opulenza e lusso. Uova e patate che insieme trasmettono ricchezza e nobiltà? Chapeau.

Assuefacenti, per testura e profondità, le capesante scottate appena coperte da un brodo caldo di porcini e indivia belga quasi lessata nel brodo di capasante. La conchiglia preserva un morso invidiabile che sa di carne, di quella buona, succosa che non smetteresti mai di mangiare. Il brodo è complesso, vigoroso e rilanciato dal carpaccio del fungo stesso. L’amaro dell’indivia chiude il cerchio dei sapori. Qui si sente la mano del Giappone, e per equilibrio e per temperature.

I tortelli di gamberi rossi sono carichi di sapori autentici, di contaminazioni affilate, e mettono in mostra senza indugi un grandissimo senso del gusto nell’orchestra di contrappunti e abbinamenti. Una lettura entusiasmante che passa per il recupero di preparazioni tradizionali made in Rome, – vedi lo spessore della pasta volutamente importante – rilanciate in forma contemporanea. Accanto al raviolo c’è la croccantezza, in stile asiatico, del sedanorapa e la freschezza disarmante del limone verdello di Basilicata. La colatura d’alici, così sapida, il timo e lo zenzero alzano i toni della portata.

Levità, perizia tecnica e grande nettezza di sapori per il risotto con quaglia, topinambur e shiso che si erge senza dubbio a piatto della serata. Il riso Acquerello è al dente, integro, non eccessivamente mantecato, burroso e formaggioso. La quaglia viene sfruttata in toto: il petto viene usato per il brodo mentre il coscio viene cotto a bassa temperatura e glassato con il suo fondo. Poi c’è il topinambur, un carciofo del nord, anche qui in duplice consistenza. Ma la vera svolta è lo shiso, balsamico, pulito e chiaro nell’aroma.


Conclusione monumentale, con una signorina animella glassata e servita con un’altrettanta importante insalata di puntarelle, carciofi crudi e menta che cede il passo alla possanza carnivora della carne abbracciata da una glassa senza paragoni.

Vera parata glicemica per il comparto dessert, in linea con la tecnica pregevole di tutta l’esperienza a tavola: gelato alle castagne, crumble al caffè, meringa, mandorle salate, castagne cotte nello sciroppo e alchechengi. Poi scaglie di sale Maldon e foglia d’oro. Il pasticcere Giuseppe Mazzillo l’ha battezzato Autunno ma per me potrebbe rimanere in carta tutto l’anno.
La punta di sale è risolutiva e segna la fine di un pasto, all’insegna del convivio più equilibrato, potente e coerente degli ultimi mesi, forse anni.
Ora che c’è il Su, chissà se il Giù resterà affollato come al solito. Io i tortelli alla carbonara li continuerò a ordinare.
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