Lo ammetto, non sono una grande esperta di vino. Anzi, a dirla tutta, non ne capisco quasi niente, se non niente. Quando qualcuno mi chiede consigli su un ristorante non accenno mai alla carta dei vini: che ci siano 300 etichette o solo 30 per me non c’è differenza. Ecco, magari riesco ad accorgermi se un vino sa di tappo ma qualora mi versaste un calice di Tavernello o di Sassicaia per me non ci sarebbe differenza alcuna, li allontanerei con pari ripugnanza.
Non mi piace il vino, sopratutto quello rosso: troppo ricco, importante, pesante. A tavola preferisco bere acqua, rigorosamente frizzante, o, in caso di una cena molto ricca a base di fritti e lieviti, anche un’ingiustamente bistrattata coca cola.

Per molti starò dicendo castronerie, ma questo è il mio pensiero e, per i pochi fortunati che stanno continuando a leggere le mie parole, adesso racconterò, per filo e per segno, la mia prima ed emozionantissima esperienza all’interno della Cantine Gambino di Linguaglossa in provincia di Catania che mi ha convertita a questa oscura, per me, religione.

Qui, a pochi metri dall’Etna si erge una cantina pazzesca che produce varie etichette sfruttando gli aromi che l’uva, coltivata su questi terreni vulcanici e rinfrescata dalla brezza marina, regala.
Ovviamente io non conoscevo quest’azienda, a mandarmici è stato l’hotel in cui alloggiavo, La Plage Resort di Taormina. Nessun regalo fu migliore di questo. Nonostante io odi il vino, la visita con degustazione alle cantine Gambino è stata memorabile.
Dopo una tranquilla passeggiata sul cratere dell’Etna sotto un temporale non proprio delicato ed un vento molto invadente accompagnata dal mio prode autista sono giunta alla cantina. Intorno a me vigneti sterminati, davanti a me l’ingresso all’azienda.
Entro, poggio ombrello e k – way e subito assaggio un vino gentilmente offerto dal ragazzo che da il benvenuto ai clienti.
Prima di iniziare la descrizione di ogni singola etichetta assaggiata – vi preannuncio che le ho provate tutte fatta eccezione del Rosato già, ahimè, esaurito – voglio raccontarvi qualcosa in più sull’azienda.
Innanzitutto, dato che mi ha colpito molto, la super, iper, ultra, strafamosa cantante Rihanna ha fatto visita all’azienda e si è seduta alla loro tavola durante una vacanza nell’isola. Oltre a questo importantissimo evento, bisogna innanzitutto dire che a capo di questa macchina del vino c’è la famiglia Raciti, in particolar modo i tre fratelli Francesco, Maria Grazia e Filadelfo.
Raciti? Gambino? Qual è il collegamento?
Nel 1978 Vittorio Raciti, padre di Francesco, Maria Grazia e Filadelfo, acquistò la proprietà terriera unendo alcuni appezzamenti di terra appartenenti a diversi proprietari. Ben presto convertì le svariate coltivazioni praticate all’unica coltivazione della vite, condividendo la sua passione con la moglie Maria Gambino – ecco il perché del nome delle cantine.
Nel 2002 i tre discendenti, Francesco, Filadelfo e Maria Grazia Raciti Gambino, insieme alla madre, Maria Gambino rinnovarono l’attività e modernizzarono la lavorazione della produzione del vino. Nacque così la Cantina Gambino.

Nel 2008 arrivano i problemi: a causa della collocazione della cantina all’interno del Parco dell’Etna, un’area protetta, quest’ultima non poteva essere strutturalmente ampliata per le nuove regolamentazioni vigenti. La famiglia Gambino, con l’aiuto di supporti finanziari privati ha cambiato l’ubicazione della cantina iniziando la nuova costruzione completata solo dopo 3 anni. Un enorme lavoro che oggi ha ripagato la famiglia con la produzione di un’eccellente vino a bassissime emissioni di CO2, grazie al fatto che la cantina è stata scavata nel sottosuolo.
Oggi la cantina comprende 25 ettari di terreno con uve e altre coltivazioni. I vitigni di Grillo, Cabernet e Nero d’Avola sono coltivati nella zona di Caltanissetta, nella Sicilia centrale. Il Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Cataratto e Carricante, invece sono coltivati sui territori etnei. La cantina Gambino è la più alta del vulcano e i vigneti sono gestiti con un rendimento di basso profilo per pianta per ottenere quell’equilibrio che è la base per ottenere vini di qualità.

Ogni anno l’azienda produce circa 150 mila bottiglie destinate per lo più al mercato dell’enoturismo e alla vendita ai privati: il vino si fa in cantina e non via fax.

Ma veniamo alla sostanza.
Dovete sapere che oltre alla cantina e alla vendita, Gambino ha dedicato un’area alla degustazione al calice delle varie bottiglie abbinata a prodotti gastronomici di prima qualità.

Due sono i possibili percorsi degustazione: uno da 5 bottiglie, uno da 8 bottiglie, con o senza abbinamento cibo (15,00 – 43,00 euro).
Io, ovviamente, provo 8 bottiglie, più l’abbinamento cibo.

Si inizia in piedi con il Feud’O Bianco: 90% Grillo e 10% Carricante. E’ un vino giovane che fa cinque mesi di affinamento in vasca di acciaio inox sui lieviti.
Passiamo alla tavola, in legno già ricca di bicchieri, cestino del pane, olio extravergine della casa – fantastico – sale, finocchietto selvatico, origano e uovo sodo di galline livornesi.


Mentre attendo quella che diventerà la mia guida al mondo del vino, mi preparo qualche bruschetta, per nulla sgradevole. L’olio è piacevolmente fruttato e impregna bene il pane di grano duro che cattura tutti i profumi del finocchietto che cospargo sopra.
Ecco Gaetano Milazzo, sommelier appassionato – a breve partirà per le floride terre australiane – e paziente guida per amatoriali bevitori di succo d’uva. In mano ha una bottiglia.

E’ un Tifeo Bianco. E’ costituito da un 60% di uve Carricante e 40% Cataratto. Mineralità, sapidità – perché le uva crescono sul versante est – acidità spiccata – per la lenta maturazione a basse temperature – sono le sue note principe. Presenta lo stesso affinamento del precedente. In bocca, per me che sono una neofita dell’ambiente, sono praticante uguali. Oso nel dire che questo è più minerale e frizzante.

Mentre mi scolo questo bicchiere spizzico qualcosa dal piatto unico portatomi dalla cucina. Dentro ci trovo, quattro diversi formaggi, tutti di pecora eccezion fatta per il terzo di vacca. Dal ragusano con zafferano e pepe al pecorino stagionato, questi tocchi di latte conquistano il mio favore. Poi ci sono delle olive, verdi e nere, uno spicchio di melanzana al forno con olio alle erbe e pomodori secchi.
Arrivano uno dietro l’altro i 3 rossi.

Duvanera: Nero d’Avola con 2 anni di invecchiamento, affinamento in botti di rovere francese da 225 lt di secondo e terzo passaggio – ovvero botti che in precedenza contenevano lo stesso vino. Al gusto si percepisce frutta rossa, spezie, pepe nero, vaniglia, noce moscata, chiodi di garofano. Resiste per sei anni in bottiglia.

Alicant: dato dall’unione di uve Cabernet Sauvignon e Grenache con sempre un affinamento in botti di rovere francese da 225 litri ma questa volta per un 30% in botti nuove e un 70% in botti usate per ottenere sensazioni legnose più forti. In bocca sensazioni di cioccolato fondente, tabacco e cuoio. E’ un vino molto strutturato, adatto per carni alla griglia.

Finiamo con Tifeo Rosso: i protagonisti sono il Nerello Mascalese e il Nerello Cappuccio. Si tratta di un vino più morbido e meno pungente perché più anziano.
Ovviamente queste descrizioni sono tutte di Gaetano. Il mio commento è stato esclusivamente visivo: il Tifeo è più chiaro perché meno ricco di antociani.
Bisogna rimediare. Improvvisamente quella che era una degustazione si trasforma in una lezione sul vino. Gaetano mi spiega i punti principali di un buon sommelier.
Ora so come degustare un vino. 4 sono gli elementi che devo valutare: limpidezza, colore, spessore e gusto, sopratutto acidità che fa salivare la bocca e tannino che provoca un senso di astringenza.

Tra tutto questo rosso ci stanno bene due affettati: ecco del salame e della lonza di maiale locale, non dei Nebrodi però ma comunque straordinariamente buono.
Per ora in pole position è il Tifeo Rosso: il vino rosso mi ha sorprendentemente conquistato. Ma non è ancora finita, adesso Gaetano mi porta la chicca dell’azienda, il loro vino migliore.

Petto Dragone: l’uva – Nerello Mascalese – ha 40 anni. Dopo 25 anni decresce la quantità ma migliora la qualità. Questo vino fa 12 mesi in botti grandi di rovere da 2500 litri e poi va in bottiglia, con un affinamento totale di 10 anni.
Non male devo dire: di questo ho fatto il bis e ne ho ordinate 5 online. Purtroppo in aereo non potevo portarle con me.

Accanto a questo miracolo liquido un miracolo, solido: la salsiccia al ceppo, ossia una salsiccia di maiale, lo stesso usato per i salumi, battuto al coltello e non macinato, insaccato e cotto sulla griglia. Buono, buono, buono perché insaporito solo con sale e pepe.

Finisco con un biscotti di pasta di nocciole, che sull’Etna crescono come funghi, ed esploro le cantine sottostanti che si trovano a undici metri sotto terra, scavate nella roccia vulcanica per un controllo naturale della temperatura.

Nel corso della visita guidata ho scoperto che a provocare il mal di testa nel vino è la presenza di solfiti. Meno ce ne sono, meglio è: non possono non esserci. Sono come dei conservanti che in Italia nel vino bianco possono raggiungere i 210 mg/lt mentre nel rosso 140 mg/lt per la presenza di tannino, conservante natural. Gambino ne ha molti di meno. Ecco perché dopo aver bevuto quasi dieci bicchieri di vino sono ancora lucida e pronta ad andare a Catania a mangiare il miglior supplì del mondo.

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