Un esploratore senza diario di viaggio è come uno chef senza coltello.
Il diario di viaggio è l’utensile più utile ed indispensabile per raccogliere informazioni, fissare ricordi, tramandare attimi di impressioni fulminee.
A volte, però, il diario di viaggio non ha una copertina di cuoio, pagine ingiallite e penna incorporata. A volte, il diario di viaggio è dentro di noi, nel profondo del nostro io. Rimane lì, zitto, zitto finchè un impulso non lo fa scatenare e risorgere.
Andare in India, essere pervasi dal profumo pungente del cardamomo e fulminati dall’arancione brillante della curcuma, visitare la casa di una vecchina, bagnarsi le mani nell’acqua torbida, toccare le foglie di betel: questo è il diario di un viaggio passato di Francesco Apreda, chef stellato dell’Imago all’Hotel Hassler di Roma.

Diapositive, flashbacks, scorrono nuovamente nella sua mente dopo molti anni e confluiscono in un piatto.
Ma cos’ha scatenato tutto ciò? Perchè proprio ora torna il viaggio in India e la foglia di Betel?
Tutto è nato dall’incontro tra lo chef Apreda e l’artista Matteo Giuntini, osservatore scrupoloso della banale realtà quotidiana e creatore di pitture e installazioni intime, provocatorie che invadono la sfera personale dello spettatore.

In occasione di Culinaria, Il Gusto dell’Identità – Biennale di arte e cibo – chef e artisti hanno instaurato un dialogo tra loro e, all’interno di un museo temporaneo, si alternano davanti alla platea esponendo il loro pensiero ed il frutto del loro incontro.

In questo preciso caso, due menti vulcaniche nei pochi metri quadrati dello studio di Francesco hanno dato vita a Vulcano.
Da una parte vulcano diventa un parallelepipedo, una stanza buia dove la luce soffusa colpisce oggetti che “parlano” di creatività e stupore, di idee, sogni, esperienze e viaggi, con suggestioni legate al mondo della magia. Questo spazio ristretto, che può essere osservato solo sbirciando dai fori creati nelle pareti a varie altezze, è sormontato dall’opera “La Malelingua”, un disegno su carta, realizzato da Giuntini, e applicato su una base in compensato di pioppo.
Dall’altra diventa un involtino, un simil tacos di shiso ripieno di lingua di vitello. Anche lui è un parallelepipedo, squadrato e regolare. Stretto è il legame fra l’arte di Matteo e le sue scritte, secche, nere, slanciate e regolari nel loro essere irregolarmente geometriche, e il roll di Francesco.
Proprio nell’auditorium Francesco racconta il suo piatto al pubblico che, miracolosamente in silenzio, ascolta.

C’è un finto sanguinaccio, a ricordare l’acqua torbida in cui metteva le dita il vecchio indiano, di color rosso, come l’hennè con cui gli orientali si tingono le mani ed il volto.
Lo stesso sanguinaccio in cui Francesco, da piccolo, intingeva i savoiardi a colazione. India e Casa si fondono, memorie passate, prima lontane, ora vicine.
Estratto di peperoni, crema di barbabietola, estratto di barbabietola, crema di ricci di mare, olio di sesamo al peperoncino, estratto di zenzero, colatura di alici, soia scura artigianale, fondo di vitello sono gli elementi necessari a ricreare il sanguinaccio, il suo colore e il suo sapore ferroso e deciso, ma stavolta di mare. Un sangue molto fluido, ma non coagulato – non sono San Gennaro – dice sorridendo Apreda.
Poi c’è lo shiso al posto della foglia di Betel che sprigiona sentori di melissa, anice, basilico – è perfetto per fare dei pesti all’italiana con cui condire due rigatoni – ci rivela lo chef.

Poi c’è la lingua di vitello, prima marinata 26 giorni in una soluzione allo 0,7% di zucchero e 0,3 % di sale per intenerirne la carne e successivamente cotta sottovuoto a 75 gradi in un brodo di pollo profumato all’alga kombu. Nessuna aggiunta di sale, è il gluttamato contenuto nell’alga che dà spessore al tutto.
Quindi il taco di shiso viene farcito con una crema di miso bianco, yuzu e mostarda, con la lingua affettata, con la panna acida alla finocchiella fresca e betelnut tostato, con un blend croccante di pistacchi nocciole, arachidi, semi di coriandolo e semi di finocchio sabbiati con lo zucchero, con scaglie di sale affumicato, con insalata di cavolo, sedano e taccole condite con una salsa orientale a base di soia, zenzero e wasabi e con…può bastare? No, ancora semi di senape cotti nell’aceto di mele e nel succo di mela biologico.
Si chiude l’involtino e il gioco inizia.

Apreda da chef stellato quale era si trasforma in antropologo e illustra alla platea, ancora in silenzio, il metodo con cui procedere all’assaggio.

Innanzitutto, bisogna sporcarsi le mani nella curcuma tostata, poi prendere l’involtino, intingerlo completamente nel sanguinaccio e infine portarlo alla bocca in una volta sola e divorarlo.

“Mi raccomando, bisogna mangiarlo in un sol boccone”
Ribadisce Matteo Giuntini che solo poche ore prima aveva potuto assaggiarlo nella veste definitiva.
Tutto il pubblico svolge il proprio compito e resta stupito. Pulisce la mano su un telo bianco che diventa opera d’arte, permanente.

50 persone in fila, schizzi di liquido ovunque, occhi spalancati e espressioni stupefatte: sembrava di partecipare ad un rito satanico di iniziazione.
E invece no, eravamo parte di un’opera d’arte, un’istantanea non replicabile.
Anche il piatto è un’esclusiva, in edizione limitata, creato esclusivamente per l’occasione. Non potrebbe mai salire all’ultimo piano dell’Hotel Hassler.
Così come l’installazione di Matteo, piena di cose, fogli, spezie, materiali – c’è anche la giacca dello chef – è temporanea, labile, soggetta al mutamento.
Nonostante sia finito nella mia pancia, digerito e assimilato, l’involtino fa ancora parte di me. Il sapore e l’odore salmastro dei ricci di mare è impresso ancora nelle mie mani, il rosso della barbabietola ha tinto le unghie e i pantaloni. Sarà dura mandarlo via, ma meglio così: sono un piccolo tassello di un’opera d’arte durata il tempo di una conversazione.
[Immagini: Daniele Amato]
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