A volte tendiamo, io in primis, ad arrovellarci sul valore dell’esperienza gastronomica di pregio. Vogliamo rincorrere l’unicità del luogo, il momento o il contesto più lussuoso per evadere dall’ovvio, godendo a tavola. Ci sta, per carità, ma rischiamo di lasciarci dietro la bellezza di quella calda, atmosfera casalinga che in fin dei conti è la vita stessa, o almeno il 90% di essa.

Ora, non sarò la prima a parlare dell’Osteria dell’Ingegno – eclettica trattoria urbana stanziata con successo nel centro di Roma – ma più che mai durante l’ultima visita ho compreso il significato di questo luogo: una via d’uscita, ricamata sul bisogno individuale di ogni avventore, che distribuisce su ennemila livelli e fasce orarie il concetto più vicino alla felicità. Sottovoce, ma tuonante. In un formato mainstream che suona all’unisono su una scala enogastronomica senza limiti.
25 anni fa, 5 anni prima che io nascessi, Giacomo Nitti dava il nome a questa creatura destinata a fare breccia nel cuore dei romani. E ora Francesca, Anna e Lucia, rispettivamente mamma, figlia e zia continuano la storia dell’Osteria con la loro cucina spiccatamente femminile, consolatoria e comunque contemporanea.

Accanto a loro, nella sezione enologica, la cultura e l’esperienza affinate da Paolo Latini vi invitano a metter piede in una cantina di rara profondità, visione e pensiero, intimamente laziale, etica e di nicchia. Dopo dieci anni da Gusto, altri all’enoteca Provinciale in via Condotti e tra le ultime esperienze un triennio all’Osteria degli Amici a Trastevere, Paolo è diventato la punta di diamante del servizio.
E pensate un po’, è stato proprio lui a seguirmi minuto per minuto nella degustazione di qualche sera fa.

Ore 20:30, fuggendo dal vento romano, appena ammorbidito dalle colonne di quello che il mio accompagnatore ha scambiato per il Pantheon (è il tempio di Adriano), entro in Osteria. Tanti tavolini apparecchiati in maniera essenziale, giallo/arancio alle pareti, tante bottiglie, quadri e una lavagna con elencati i piatti del giorno. E sono proprio loro, assieme a qualche cavallo di battaglia, gli antipasti, primi e secondi che mi accingo a mettere in bocca.

Salmone affumicato con insalata di puntarelle. Pochi fronzoli e tanta sostanza, ma non di quella greve, opulenta e piatta romanità inflazionata. Il tocco è lieve, mirato e in completa devozione del prodotto, manipolato il giusto, per dare il massimo all’assaggio: la catalogna è condita solo con il succo del limone per esaltare la potenza del pesce.

Un tratto emotivo e umanamente pregno di convivialità nella sua accezione più rincuorante e sana è la polpetta di trippa con salsa di pomodoro e cicoria. Nella top 3 dei piatti della serata, la polpetta è estremamente morbida, ricca di uova e formaggio in omaggio alle polpette cacio e ova tipiche della regione di provenienza delle cuoche.

Non si può prescindere dall’assaggiare il carciofo, quasi alla romana, cotto lentamente in tegame con i classici sapori del territorio, dal prezzemolo alla mentuccia. Didascalico in ogni preparazione, è ottimo anche come contorno.

Tre i primi in sequenza, rigorosamente da condividere in stile Lilli e il Vagabondo.
Pici, vongole, pesto e zucchine. Con un bilanciamento mirabile e suadente che invoglia progressivamente sempre al nuovo boccone, si casca bene, anzi benissimo. La potenza del pesto non copre ma accompagna la vongola estremamente succosa. Scarpetta obbligatoria.

Momento topico. E’ arrivata la cacio e pepe. La pasta, fatta in casa, oscilla tra il tonnarello e il tagliolino. Callosa e saporita di suo, viene avvolta da una crema di pecorino romano in purezza stranamente delicata. Grande piatto. Altra scarpetta.

Si affonda il cucchiaio in una crema dal timbro dolce e setoso. La fava secca si carica di voluttuosità per l’aggiunta della cicoria ripassata. Un primo, non primo, stagionale e ricco.

Ultimo assaggio prima del dolce: ossobuco di vitello e schiacciata di patate. Tenero, soave e avvolgente come un abbraccio materno, leggermente grasso ma piacevolissimo.

E adesso non gettate l’ancora: c’è il comparto dessert tutto da conoscere.
Se riuscite ordinate tutto, TUTTO.
Antologico il tiramisù servito in tazza con una crema che lo stesso personale cerca di accaparrarsi durante le pause.
Natalizia è invece la tarte tatin di mele che guarda tanto alla Francia quanto al Nord Italia con un gelato alla cannella da KO.
E poi lei, la panna cotta, non sformata ma lasciata in crema, lattica, dolce e ingegnosa.
L’Osteria dell’Ingegno sintetizza brillantemente fattori inscindibili dalla gioia del ristoro quotidiano: convivio, accoglienza, libertà e divertimento. Che tu sia un uomo d’affari in disperata ricerca di riparo dal pressing giornaliero o un abitudinario aggrappato al rito della cacio e pepe e del tiramisù in barattolo o ancora uno studente bramoso di aperitivi vertiginosi o un gastrofissato (come la sottoscritta) che vuole saccheggiare carta di vini di assoluto spessore e vivande, senza il peso di vivere un ristorante pettinato, questa è la porta da spingere con veemenza, per accedere alla soluzione evasiva a portata di (quasi) tutti.
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