L’eleganza del gesto senza ghirigori. La complessità della semplicità elevata a bussola di un falso bistrot che bazzica lontano dai sentieri troppo battuti. L’indolenza, la ribellione come condizione creativa.
Questo per me è Jacopa, un’oasi riflessiva dove immediatezza e sperimentazione mandano in tilt qualsiasi preconcetto e pregiudizio sospetto.

All’interno dell’ Hotel San Francesco, uno dei pochi alberghi della Trastevere per bene, non contaminata – almeno per ora – da acchiappa turisti e “spagheti with carbonara sauce” c’è questo piccolo ristorantino da una ventina di convivi fitti fitti, apparentemente formale e pesante, ma in realtà sgrammaticalmente – permettetemi la licenza – effervescente proprio come i suoi chef.
Barba folta e irsuta Jacopo (Ricci), sguardo caldo e sincero Piero (Drago), due teste e quattro mani opposte e complementari capaci di raccontare una cucina povera, e mai essenziale, ad altezza d’uomo senza sovrastrutture, orpelli e artifici effimeri.
Le esperienze maturate affianco a papà Anthony Genovese in quel del Pagliaccio, hanno riempito i due di tecnica, consapevolezza e ragione.
Dosaggio delle spezie, temperature, tempistiche sono solo alcune delle colonne portanti trapiantate come fossero archi di travertino in questa nuova avventura che vede solo loro come eterni protagonisti.
Con serietà e senso d’ellissi Jacopo e Piero cucinano la geografia spaziale del territorio laziale senza sprechi e confini: un piede è nel mare, l’altro nel minerale con radici comuni a sfondo vegetale.
“La nostra cucina vuole rispettare in primis l’ambiente. Cerchiamo di scegliere prodotti sostenibili o di piccoli produttori locali. Materie prime di stagione di cui vogliamo utilizzare tutte le parti, evitando così gli sprechi”.
E così, salite le poche scale e percorso l’ingresso, mi ritrovo in questa luminosa sala, lunga e stretta, contornata da specchi e scaffali, a mangiare sostenibile.

La cena si apre con una batteria di stuzzichini di terra dal minimalismo esclusivamente estetico dove la pulizia strutturale nasconde ricchezza d’assaggio.
Babà bagnato nel succo di rapa rossa, caviale di aringa e panna acida; cialda di peperone crusco con crema di peperone del Piquillo; lumache.


Il trio perfetto che apre le danze ed introduce una fantasticamente calda e fragrante pagnotta di sola semola accompagnata da burro salato di Normandia.

Si stempera la gola ed il palato con il delicato roll di tamago, la tipica omelette giapponese, qui ripiena di gamberi con brodo dashi da bere in accompagnamento. Una divagazione asiatica, placida ma intensa e persistente che avvolge la bocca di un grasso dolce e leggero. Una stretta amorosa scossa dalla profondità aromatica del brodo.

Il percorso procede su un equilibrio naturale e mai ostentato con la capasanta laccata con jus di vitella e dumpling di vitello. Un omaggio al saltimbocca alla romana dove il prosciutto finisce nella pasta e il profumo intenso e balsamico della salvia va ad abbracciare il mollusco amplificandone le marine sapidità.

Minimalismo ton sur ton per l‘animella glassata con carciofo alla matticella e limone fermentato secondo un’antica tecnica beduina. Massimo impatto per il minimo numero di elementi contemplati nel piatto, esaltati alla perfezione da cotture aggressive e ancestrali che guardano con stizza a roner e sacchetti sottovuoto.

Fettuccine acqua e semola, seppie sporche e alghe fritte. Il nero di seppia è un vettore d’energie, di iodio ed un elemento perturbatore che assieme alle alghe scure intona un duo appena ravvivato dal dragoncello. Centrata in pieno la decisione di eliminare l’uovo dalla pasta.

Piatto firma della cena sono i ravioli manzo, cacao e parmigiano. Consistenza della pasta perfetta; ripieno presente al morso, succoso e saporito; condimento persistente seppur basato esclusivamente su vegetali.

Tecnica bella che colpisce la riscontro nel secondo presentato in più servizi, tutti a base di agnello. Questo arriva intero al ristorante, viene arrostito in forno, sporzionato e servito con cicoria in due consistenze e un grano biologico risottato con le interiora dell’agnello stesso. Un piatto decisamente perfetto, romano, verace e dannatamente buono.

Prima della chiusura, un piccolo trattato sugli erborinati veri, naturali, lasciati andare al loro destino di morte lenta e graduale.
E il motto “la bocca non è stanca finchè non sa di vacca” viene meno non solo per l’inusuale pre – dessert ma anche perchè a chiudere le danze ci pensa una pannacotta di latte di pecora a forma di pecora con rabarbaro e rapa rossa. Un dolce sui generis, per nulla pesante e impegnativo che lascia trapelare l’anima più salata dei due chef.

La carta dei vini presenta molte etichette naturali, italiane e straniere.

Grande interesse anche al Cocktail bar, per cui è stato chiamato come consulente Emanuele Broccatelli, uno dei bartender più apprezzati di Roma e non solo. A proporre la sua drink list al bancone e nello splendido Rooftop bar estivo di Via Jacopa de’ Settesoli, Cristian Straccio e Rebecca
Sanzone, due volti del mondo del bere molto amati nella Capitale. E affianco al drink, all’ora dell’aperitivo, la cucina offre divertenti bun giapponesi ripieni di ricette tipiche italiane come la coda alla vaccinara e l’insalata di polpo.


Una domanda urge spontanea: il conto? Una sessantina di euro procapite, un dazio simbolico da donare con ricambio e appagamento all’imperatore romano che detta legge senza danni collaterali.
E qualora si concretizzasse il desiderio di fornire al cliente un menù unico con valenza di “o mangi la minestra o salti dalla finestra“, comunque sia il ristorante rimarrebbe sempre una placida monarchia costituzionale.
Dove la costituzione nient’altro è che una cucina d’autore scritta al plurale. La fusione di una moltitudine caotica in una sfaccettata e singolarissima identità. Benvenuti da Jacopa, benvenuti nella Roma dei giovani non alla moda.
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