Sarà che ci sono legata affettivamente, che quando la vedo, la percorro, la respiro, mi si stringe il cuore ma Via Giulia, e tutto quello che nasconde, mi ha sempre affascinato.
La partita era vinta a tavolino allora. Avrei potuto cenare nella peggior bettola della città, nutrita a calci e pugni e sarei comunque uscita felice e appagata. Fortunatamente però così non è stato. Fortunatamente – non so per quale oscura ragione ma la buona sorte è dalla mia parte in questo periodo – ho trascorso 3, densissime, ore della mia vita nel cuore di quella via, a pochi centimetri dal romantico arco che primeggia tra rampicanti e sanpietrini mangiato cose anti – convenzionali.

Il nome esatto del ristorante è Giulia Restaurant. L’aggiunta british credo sia un faro di attracco per tutti i turisti spaesati che, ipnotizzati dall’oscurità di questo vialone infinito, cercano disperatamente un luogo in cui mangiare, ma poco mi interessa.
L’importante è che si mangi bene e che il british sia solo nel nome e non nel piatto.
Ma andiamo per tappe.
Innanzitutto va detto che Giulia nasce nel 2017. Per 4 anni di andate e ritorno per quella via, infatti, nonostante lo zaino pesasse sulle spalle, avevo la forza di alzare lo sguardo per ammirare gli spazi circostanti e posso assicurarvi che prima del ristorante, quelle quattro vetrate a tutt’altezza occupavano una sartoria, sull’orlo di essere annientata.
La palazzina fu progettata dall’architetto Marcello Piacentini. Negli anni divenne il laboratorio del dottor Cesare Frugoni, poi atelier e infine, come attestano le mie camminate, magazzino artistico.
Poi la rivoluzione: l’imprenditore Carlo Maddalena investe nell’attività e mette in piedi un ristorante da 45 coperti.
Nulla di turistico con buttadentro, menù di carta e adesivi di TripAdvisor: Carlo vuole qualità e novità.

Ecco allora il design curato, industriale e vintage con mobili di legno alternati a elementi di design dalle tinte accese e accattivanti. Ma attenzione, l’ingresso non è da Via Giulia come si potrebbe pensare. Dal lato opposto, a Lungotevere dei Tebaldi c’è una piccola porticina che introduce al piano alto. Una scala vi condurrà a terra, al bancone bar o direttamente a tavola.
Le opzioni sono tante così come i momenti della giornata in cui andare: dalle 10 alle 2:00 di notte Giulia è aperto al pubblico per un caffè, un cocktail, un pranzo veloce o una degustazione più articolata.

E chi si muove dietro la cucina? Chi rende concreto il sogno di Carlo di offrire qualità al centro di Roma?
Un giovanissimo, anche questa volta: Pierluigi Gallo, campano di nascita, abruzzese di formazione e romano d’adozione.
Classe ’83, Pier viene svezzato a suon di soffritti e profumi di brace nel ristorante di famiglia a Vasto sperimentando i vari profili ristorativi. Diventa cameriere, poi cuoco, panificatore e pizzaiolo. Non contento prende anche la strada universitaria che lascia a 4 esami dalla laurea per aprire il suo ristorante “L’Osteria del Gallo“. Poi la voglia di crescere e quindi l’ingresso alla Niko Romito Formazione a Castel di Sangro. Da lì nelle brigate più importanti d’Italia: al 3 stelle Reale fino ad approdare a Roma dove esercita al celebre All’Oro di Riccardo di Giacinto, al Pagliaccio di Anthony Genovese fino agli Ulivi ai Parioli.
Piccola parentesi al Greg di Tivoli ed ora eccolo lì, lo vedo dimenarsi in cucina con i suoi ragazzi, mentre manteca il risotto e glassa le animelle.
Dopo tutto questo preambolo non posso permettermi di dire di aver mangiato male. Tutt’altro: la cena è stato un crescendo di sapori sempre più intensi ed estremi dove la tecnica va di pari passo col gusto.
Si parte con 4 bocconi: macaron salato alla mortadella; polpetta di cicoria e camomilla; marshmallow rucola alici e pecorino e ancora una cialda con lenticchie. Niente è scontato o lasciato al caso, tutto è calibrato nei minimi dettagli.

Il pane è un chiodo fisso dello Chef che cura ogni giorno portando a maturazione il lievito madre. E con questo – e talvolta con il lievito di birra – si sbizzarrisce per preparare pagnotte, focacce, pane casareccio e poi dei mini babà ripieni di broccoli e salsicce da perderci la testa. Sarei stata contenta anche solo di mangiare pane, sono seria.

A volte leggi i menù e non sai cosa scegliere. Capita anche a voi? A me sempre e sempre mi affido allo chef: ne saprà più di me sulla sua cucina, non credete? E quella sera mi è andata proprio bene perchè ho mangiato 11 piatti che facilmente proporrei alla mia ultima cena, in solitaria ovviamente.

Dalla triglia in carrozza ripiena di provola affumicata filante, sapida, ricca ma non pesante perchè smorzata dalla nota acida del limone arrosto, passo alla battuta di agnello con tartufo nero uncinato e, udite udite, maionese affumicata di agnello. Maionese affumicata di agnello?! Avete letto bene: non è una sinestesia né un ossimoro ma la pura realtà. Pier prepara una densa emulsione con il latte arricchito per infusione dei sentori di brace più violenti della carne…provate ad assaggiarla davanti la partita con un sacco di patatine e vi sentirete nell’iperuranio.

I sapori si intensificano con le animelle cotte al burro nella più classica delle maniere e accompagnati da una variazione di broccolo siciliano, intenso e giustamente amaro con il sapido del parmigiano a controbilanciare il tutto.

E poi il mio reparto preferito: la pasta. E se lo spaghettone Gentile cotto in un succo di lenticchie con crema leggera di ricci di mare non mi aveva a pieno convinta, gli gnocchi ripieni di spuntature e le penne alla genovese di Pannicolo mi hanno letteralmente portato alla commozione.

I primi erano succosi, umidi, corroboranti: la patata abbracciava la carne di maiale sfilacciata a mano dalle tinte leggermente affumicate perchè insaporita con un estratto di pomodorini arrostiti e una seria di spezie. L’alice e la puntarella fritta richiamano l’attenzione su Roma e la sua incredibile golosità.

Le penne invece sono il mio punto debole. La genovese, così ricca di cipolle, è il mio piatto preferito – Nonna era di Avellino – che ogni volta che trovo in menù non perdo occasione di ordinare. Qui le carte si mischiano perchè il taglio di carne è il Pannicolo, l’equivalente del diaframma umano; l’acidità è conferita dallo yogurt di bufala; la dolcezza da una crema di carote arrostite. Sono senza parole.

Grande mano anche nei secondi: qui si manifesta la bravura dello chef nell’equilibrare i vari addendi e dare una somma da standing ovation.
Il piccione, prima cotto a bassa temperatura e poi scottato rapidamente in padella, è rosato e tenero e ben si sposa con il cavolo nero in osmosi, la composta di arancia amara ed una leggera nota di caffè.

Di pancia è il baccalà a 56 gradi con spuma di ventricina, latte di bufala e lattuga: alcuni dei miei ingredienti preferiti sono racchiusi in pochi centimetri cubi di fondina. Roma, Abruzzo e Campania qui si incontrano.

Botta di vita finale con la pancia di maiale glassata con un succo di pera e cipolla rossa di Tropea che vorrei bere ogni mattina prima di andare in palestra. Nonostante sia la decima portata ho voglia di finirlo e ordinarlo ancora: la carne è dolcissima e tenera e il gelato alla mandorla è un tocco di classe. E’ un perfetto apripista per un dessert degno di questo nome.

Latte, caffè, cioccolato e pane. Tutti da bambini, e anche da grandi, inzuppano il pane del giorno passato nel latte e caffè. Nessuno, credo, lo faccia a fine serata in un ristorante gourmet nel centro di Roma.

La cena è finita. Mi sento come coccolata e presa a schiaffi in contemporanea. Eccitata, entusiasta, rilassata e oziosa.

Le parole di Antonello Manias, maître e sommelier con alle spalle esperienze importanti affianco di Enrico Pierri – Vinarium’ e Il SanLorenzo – e di Gianfranco Pascucci, mi hanno convinta a tornare per provare i nuovi piatti, specialmente il risotto!
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