Se non lo conosci non ci vai.
Non si tratta di un ristorante acchiappaturisti a due millimetri dal Pantheon, di quelle botole/labirinti a scatola chiusa dalla forza elettromagnetica talmente pressante da risucchiarti all’interno (solo per fame s’intende).
No, niente di tutto questo: il ristorante di cui vi sto per parlare è un ritrovo, quasi bucolico, inaspettato, un’oasi un po’ inglese, un po’ marocchina incastonata nel cemento cittadino.

Adelaide è il suo nome. Femmina, elegante e non scontata. Donna. Principessa. E adesso anche ristorante. Il suo cognome racconta un pezzo di Capitale, una zolla di terra che tutti noi romani abbiamo sfiorato almeno una volta nella vita: Borghese.
Dunque è lei, Adelaide Borghese de la Roche Foucauld, moglie del Principe Scipione Borghese la protagonista di questo racconto, colei che potrei dire ha fatto sì che, martedì scorso, io abbia cenato di gusto al Rione Campo Marzio.

Nel 1841 Adelaide infatti trasformò le case annesse a Palazzo Borghese – riconosciuto per la sua architettura come una delle “quattro meraviglie di Roma – , che i Principi erano soliti dare in locazione, in una scuola per ragazze indigenti.
E la sua opera ora è ricordata in quello stesso spazio non più scuola ma albergo.

In quell’ala di Palazzo Borghese da meno di un anno infatti c’è l’Hotel VILÒN, un hotel charmant, 5 stelle lusso membro della Small Luxury Hotel of the World, unico a Roma nella it list 2019 di Travel&Leisure dei nuovi hotel più belli al mondo.
18 camere e suites, intime e uniche nel loro genere sono sparse per il palazzo che si sviluppa in altezza.
Oltre al riposo all’hotel Vilòn c’è il ristoro. E guarda caso il ristorante, aperto anche ai non clienti dell’hotel, si chiama Adelaide.
Ovviamente l’albergo copre tutti i momenti edibili della giornata su più fasce e modalità di accoglienza: c’è il lounge bar “In Salotto”, sempre aperto dalla mattina al dopocena con una linea di caffetteria, lieviti, snack e cocktail interamente homemade da non sottovalutare e poi Adelaide il ristorante che riassume in forma culinaria la filosofia dello chef Gabriele Muro.

Nonostante non abbia tastato ancora tutte le fasce orarie, posso ritenermi pienamente soddisfatta per aver potuto riempire mente e stomaco delle idee gastronomiche dell’orario aperitivo – cena.
Con navigatore alla mano e torcia, riesco – non so ancora bene come – ad arrivare in Via dell’Arancio 69, un minuscolo vicolo nascosto tra l’Ara Pacis e Via di Ripetta. Entro, supero la reception e mi ritrovo in un salone colorato, ricco ma non pomposo, di quel sapore inglese, nobile e piacevolmente sfacciato.


Ad accogliermi al bancone bar c’è Magdalena Rodriguez, barlady originaria della Costa Rica. Spigliata ed estroversa, Magdalena, rompe qualsiasi formalismo e mi prepara un cocktail al rosmarino. La sua filosofia segue l’onda del “less is more”: massimo tre ingredienti finiscono nello shacker. Tutto si deve sentire e tutto deve essere preparato ad arte: gli sciroppi sono fatti in casa e l’acqua di accompagnamento è sempre aromatizzata con erbe e spezie differenti.


Assieme al drink dalla cucina esce una ludica batteria di stuzzichini: c’è il gambero crudo, la mozzarella in carrozza con salsa d’alici e il mini burger di manzo con cipolla caramellata. Tre shot semplici che invitano a continuare l’esperienza a tavola.

Alla domanda “dentro o fuori” rispondo con sicurezza “fuori” e mi ritrovo in un piccolo cortile interno, circondato da piante e tavolini in ferro battuto dal puro gusto marocchino.

E in questo contesto ristorativo, dallo stile cosmopolita, si è insediato sin dagli esordi un isolano di Procida, il trentacinquenne Gabriele Muro. Gabriele è un cuoco di sostanza favorevole ad una cucina immediata e materica, una cucina del ricordo che trasforma piatti della memoria in opere d’arte.
Si, perché Gabriele non abbandona le competenze tecniche o conoscitive appartenenti al suo background ma ne fa un espediente creativo da trasporre nel contenitore in cui adesso è inserito.



E dunque dopo aver scaldato i motori con focaccine e pagnotte calde multicereali che meriterebbero un capitolo a parte in quanto creatrici di dipendenza – soprattuto se tuffate nell’olio extravergine locale – inizio a conoscere la mano dello chef.

Tre antipasti, uno di seguito all’altro, manifesto di un animo soul e godereccio, capace di racchiudere finezza mai ostentata, mi colpiscono nell’immediato.


Il cucchiaino affonda all’interno di una spuma di patate affumicate, lattica e avvolgente che si completa in fraseggi di temperature e consistenze con un battuto di ricciola anch’essa affumicata, spezie e patate croccanti.

Ceci in purè, baccalà sia in falde sia in spuma sia in manteca, terra di olive nere, pomodorini confit e in polvere e cipolle rosse. Poi un tocco di Argentina con la salsa chimicurri e si vola con una stilettata dritta a cuore&pancia, fatta di sapori domestici promossi con sapienza al futuro. Doverosa la scarpetta.

Cotture perfette al millisecondo per molluschi e crostacei appena manipolati ed rilanciati nel gusto da un’insalata di scarola liquida che che definire contorno risulterebbe a dir poco riduttivo. Ancora una volta la casalinghitudine della scarola imbuttunata della mamma si scontra con la raffinatezza dell’impiattamento e la tecnica.

Non scherzo se dico che questo piatto di pasta è tra i più buoni assaggiati quest’anno: linguina alla rapa rossa, ricotta di bufala al limone e ricciola affumicata. Potente, grassa in bocca ma non troppo. Equilibrio perfetto fra l’aromaticità e la freschezza del limone e i toni più grassi del pesce e della manteca – sicuramente burrosa – della pasta.

Plin ripieno di vitello alla fornarina, spuma di patate
Euro 20.00
Digressione terrestre con il secondo carboidrato: un raviolo del plin – siamo in Piemonte – ripieno di vitello alla fornara – siamo nel Lazio – e coperto da una neve di Provolone del Monaco – siamo in Campania. Piatto complesso, profondo e invernale. Ottima la consistenza e lo spessore della pasta; sorprendente il binomio vitella – formaggio.


Si conclude il reparto salato con un maialino da latte, scomposto e ricomposto, perchè cotto a bassa temperatura, compattato e poi piastrato. Una lavorazione immensa per conferire alla carne morbidezza, sapore ma anche nervo. Zucca alla senape e pack – choi finiscono lo schema dei sapori. Il segreto del piatto? La salsa, anche qui rigorosamente da scarpettare.

Biscotto friabile, namelaka al limone, composta di frutti di bosco, frutti di bosco e cialda d’ananas
Euro 14.00
Sanno di casa i dolci, familiari ma elevati alla massima potenza per quanto riguarda tecnica e dosaggi.
La tartelletta alla frutta poggia su una frolla bretone di rarà bontà, fragrante e burrosa in dosi sorprendenti e coperta da spuntoni di namelaka al limone e ai frutti di bosco.

Biscotto morbido alla mandorla, crumble di mandorla, namelaka alla mandorla, gel di pompelmo e agrumi freschi
Euro 14.00
L’altro dolce è monotematico: mandorla in tutte le forme e consistenze.


Petit fours e bacio di dama da portare a casa nello scrigno. Così si conclude la mia cena da Adelaide mentre un servizio agile, preparato e sorridente mi fa strada verso l’uscita, mentre Gabriele si prepara a tornare a casa a cucinare cannelloni per tutti.
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